Almar’à è la prima orchestra di donne arabe e del mediterraneo. Tredici voci, provenienti da nove paesi diversi, un sound che abbraccia oriente ed occidente. Radici musicali che si trasformano in un’unica voce, in grado di raccontare il mondo e la nostra storia
Almar’à: la dignità nella musica
Un vento che attraversa e abbraccia terre e paesi, che trasporta il suono di voci diverse, sollevandole dalla polvere del tempo e dello spazio. Un mare che non separa ma unisce e diventa “sangue” e “respiro”, vita e racconto. Tredici voci, tredici suoni, tredici radici che si uniscono, avvolgono, stringono, fino a diventare una sola. Una polifonia umana in grado di superare ogni pregiudizio, ogni barriera (fisica o mentale), ogni limite culturale.
Almar’à, la prima orchestra di donne arabe e del Mediterraneo, è un inno alla libertà, alla bellezza che si specchia nella diversità. “Questo progetto va ben oltre la musica, siamo 13 musiciste provenienti da 9 paesi diversi del Mediterraneo – ci racconta Sade Mangiaracina, pianista italo-tunisina, considerata fra i più importanti talenti del nostro jazz -. Almar’à significa ‘donna con dignità’, una dignità che è insita nel concetto di diversità. Significa diventare uno e far capire alle persone che non può esistere diversità”.
La libertà nella musica
La musica è probabilmente l’unico linguaggio universale esistente. Un linguaggio in grado di unire le voci di Kavinya Monthe Ndumbu (Kenya), Yasemin Sannino (Turchia), Hana Hachana (Tunisia), Nadia Emam (Italia/Egitto), che formano il coro di Almar’à.
Canzoni che raccontano e ci raccontano. Note che attraversano le corde di strumenti classici come il violino di Dania Alkabir Alhasani, il contrabasso di Derya Davulcu (Turchia), il violoncello di Eszter Nagypal (Ungheria) o quelle di strumenti più “rari” come il kanun suonato da Dima Dawood (Siria). Note che seguono i respiri del flauto traverso di Silvia La Rocca (Eritrea/Etiopia) e del nay di Valentina Bellanova e ritmi che diventano un battito cardiaco della memoria nelle percussioni di Vera Petra e nella dabourka di Sana Ben hamza (Tunisia).
Una mappa musicale di una parte del mondo, che diventa superamento di ogni confine. “Quando suono con queste ragazze sento che non sono più limitata – racconta Dania Alkabir Alhasani -. Sto scambiando la cosa che più mi piace con altre donne che vengono da luoghi diversi. Noi non vogliamo appartenere ad una parte sola, rifiutiamo ogni pregiudizio e attraverso la musica affermiamo la nostra libertà”.
Le radici
Almar’à è anche un viaggio nella storia e nell’antropologia umana. Un percorso che riannoda i fili tagliati e li ricongiunge in un’unica trama.
“Ultimamente mi sono messa a ricercare le radici storiche di questa musica. Ho scoperto che i primi musicisti nel mondo arabo pre-islamico, fino all’inizio del Mediovevo, erano donne – spiega Valentina Bellanova -. I primi uomini musicisti si travestivano da donne; soltanto con il passare dei decenni e dei secoli poi hanno preso il sopravvento. Un progetto simile rappresenta quasi un ritorno alle origini, alle radici “.
Radici che scavano nella storia per diventare il nostro presente, un presente fatto di influenze, di suoni, di emozioni che si trasmettono attraverso melodie e canti come racconta Kavinya Monthe Ndumbu: “Io vengo dal Kenya, ma come tutti sono il risultato di tutta la musica che ho ascoltato, dei luoghi che ho conosciuto e delle emozioni che ho vissuto”.
Le Almar’à sono “rumore” perché frantumano ogni legaccio, rompono ogni stereotipo, attraversano muri e barriere. Proprio come una vibrazione ancestrale che riesce ad attraversare il tempo e lo spazio. “Io sento fisicamente la musica, il suono, i rumori – dice Valentina Bellanova -. Li sento come vibrazione. Poi arriva la testa, l’orecchio che riconosce le altezze, ma prima di tutto sono vibrazione e quindi rappresentano la vita”.