Abbiamo chiuso la porta, nascosto le chiavi, acceso il televisore. Rinchiuso sul divano il nostro universo. Assuefatti ad uno spettacolo, anzi allo Spettacolo. Sonnolenti ed indolenti, abbiamo continuato senza alcuna ragione a credere che le immagini racchiudessero un’intera realtà e le parole, anche quelle, ci rassicurassero e facessero compagnia. E in quella scatola, che scricchiolava sotto palesi difetti di costruzione ed usura, il mondo sembrava autosufficiente, autoalimentato, isolato nel suo luccicare opaco. Tutte le crepe e i graffi a questa tela restavano fuori. Ignorati. Scostati con fastidio. Eppure qualcuno, in questa illusione di perfezione demodé, ha deciso di aprire la scatola e far respirare l’Altro Mondo. Quello che soffoca e viene tenuto in piedi da filo di sutura e ago, che viene illuminato dalle torce di un cellulare senza più batteria.
Dargen D’amico, sfidando regolamenti e diktat della Rai e del Festival, per la seconda volta si è sfilato gli occhiali e ha voluto guardare e farci guardare per un secondo “tutto il mondo fuori”. Quel mondo nel quale bambini sono stesi sul pavimento di un ospedale e vengono operati, a causa delle orribili mutilazioni subite, senza anestesia e alla luce di un cellulare. In questi giorni la musica, eccezion fatta sempre per Dargen e Ghali, sembrava aver vissuto in un universo parallelo, distante anni luce non solo dalla realtà, ma anche dall’umanità. Una campana di vetro dentro un quadro di pixel. Eppure, sono bastate poche parole per rompere l’incantesimo o il maleficio. E farci specchiare nel black mirror nel quale viviamo. Uno specchio scuro e rotto, usato per tagliare a pezzi la nostra anima. Perché Sanremo è Sanremo. E Gaza non è più Gaza.