La sera del 25 ottobre all’Hacienda di Roma ha avuto un sapore straordinario — non un semplice concerto, ma un momento di grande urgenza e verità. Kae Tempest è salito sul palco come un faro che illumina l’ombra: parola, voce, ritmo che si intrecciano fino a diventare atto politico.
Un mantra collettivo
Versi che hanno trafitto l’aria come un mantra collettivo: “More distance, more reach / The truth is I don’t know, it’s so deep / I know nothing, I used to think / Things were so clear, I was so near to nowhere”, recita Kae Tempest in More Pressure, dichiarando la resa al dubbio come unica forma possibile di verità. È una poesia che non cerca consolazione ma lucidità: “More distance, more reach” suona come un imperativo a spingersi oltre, a non smettere di interrogarsi. È un dialogo interiore che diventa rito collettivo: la conoscenza di sé non come isolamento, ma come pratica comunitaria, come atto politico nel senso più profondo del termine. All’Hacienda, il palco si è fatto spazio pubblico, arena e confessionale insieme. Le parole di Kae Tempest si sono intrecciate con le luci e con il silenzio del pubblico.

Kae Tempest non si è limitato a esibirsi, ha creato una liturgia, un’assemblea di corpi e voci che respiravano all’unisono. “The change begins here”, ha detto, e non sembrava una frase preparata: era un’invocazione. “I draw down from the well where it gathers. Time is a river that carries and buries. […] I stand on the line that goes back to the dawn of my kind. Before that, before that, to the dawn of all time…”, recita Kae, mentre la base cresce come una marea. È un’affermazione di genealogia e di resistenza: la “linea” come filo che lega corpi, storie, identità che non vogliono più essere marginali. Poesia che diventa carne, il riconoscimento della ferita diventa gesto di solidarietà, un atto di cura condivisa. Il concerto all’Hacienda non è stato solo un live: è stato un rito di resistenza, un laboratorio di umanità. Lì, tra le luci basse e i battiti sincopati, Tempest ha mostrato che la musica può ancora essere strumento di coscienza, che la poesia non è un lusso ma un’urgenza. Self Titled non è solo un album: è un documento politico, una topografia del cambiamento, un appello a riconoscersi e a trasformarsi. Quando le luci si sono spente, il pubblico è rimasto immobile per qualche istante, come se non volesse rompere l’incanto. C’era la sensazione che qualcosa fosse davvero accaduto: un passaggio di consapevolezza, una fessura aperta nella superficie della realtà. Kae Tempest, con la sua voce fragile e incandescente, ci ha ricordato che la poesia può ancora dire la verità, e che la verità — quando è detta con coraggio — è il gesto più rivoluzionario che abbiamo.




