“L’estate che ho ucciso mio nonno”, il nuovo romanzo di Giulia Lombezzi edito da Bollati Boringhieri, è una delicata, divertente, cinica e spassionata riflessione sulla necessità di rompere i lacci familiari, quegli stessi lacci che possono diventare cappi che vengono stretti al collo da generazione in generazione.
Un bel giorno avviene una vera rivoluzione
Una rivoluzione che si muove prima lenta e poi sempre più incalzante, seguendo il flusso delle metamorfosi interiori ed esteriori.
Una rivoluzione personale e familiare che passa attraverso l’esplosione di argini e ponti, di ogni collegamento con un passato devastato e devastante.
Una rivoluzione che riga per sempre l’anima di chi la realizza, ma che ha il potere di creare un tentennante passaggio sopra i propri burroni interiori e riavvicinare le terre, contrastando la deriva dei continenti e la scomparsa di intere isole.

“L’Estate che Ho Ucciso Mio Nonno”, l’ultimo libro di Giulia Lombezzi edito da Bollati Boringhieri, è un romanzo di (de)formazione rivoluzionario, perché racconta il percorso di un adolescente che riesce a scoprire e superare con rabbia l’orrore e l’ingiustizia degli spettri familiari e decide di invertire la rotta del destino. Anche pensando e cercando di realizzare quello che per molti è semplicemente indicibile, inenarrabile, immorale.
Alice ricostruisce la sua vita demolendo l’immagine in bianco e nero del passato, spezzando quel filo generazionale che diventa un nodo, un legaccio. Un cappio. E Giulia Lombezzi, per raccontare questo percorso, usa uno stile tagliente, ironico, cinico, che non fa sconti perché non chiede compromessi.
I suoi esseri umani sono spirali di nervi e ossa che si rincorrono, si avvolgono, fuggono, ma non si arrendono. Gli adolescenti che racconta superano i legami familiari, stringono patti e alleanze che li trasformano in “nonsanguinei” (“le persone con cui non condividi DNA ma che a un certo punto ti scegli e restano vicine, come i larici che sottoterra si tengono per mano”).
E riescono a rinascere a prescindere (e nonostante) le proprie famiglie. Come in un battesimo pagano che non ha né celebranti né celebrati, ma nel quale l’acqua ha il potere catartico di un fiume che spazza tutto quello che di morto opprime la vita.
I protagonisti di “L’Estate Che Ho Ucciso Mio Nonno” sono ragazzi negati, bisbigliati, balbettati (e balbettanti) che bruciano la propria pelle al calore di una sigaretta per dimostrare di essere vivi. E la loro vita diventa lentamente ma inesorabilmente un urlo, una rivendicazione, un manifesto del loro sangue misto sciolto e coagulato: “Abbiamo potere sulla realtà”.