Estate 2020, no, non dimenticheremo facilmente quest’estate.
E sì, ci abbiamo provato. Abbiamo provato a far finta che fosse stata una parentesi, quella del virus, del covid, del lock-down, delle distanze. Abbiamo provato a fingere di riguardare il mondo con gli stessi occhi e che di diverso ci fosse solo una grandissima sete di quella “normalità” che ci è mancata. Ma nulla è riconducibile a quello che eravamo abituati a conoscere.
Abbiamo affrontato un’estate con pochi concerti, pochissimi incontri live che, no, non sono quelli che vivevamo fino a marzo. Abbiamo vissuto concerti in cui il corpo percepiva la pericolosità di esserci, musiche suonate in punta di piedi che cadevano in spazi mai pieni di presenze e corpi dai rumori sopiti. Ci siamo abituati a vedere festival cancellati, calendari in bilico, date annunciate e mai realizzate concerti rimandati all’ultimo minuto.
Abbiamo visto spalti vuoti e persone immobili al proprio posto. Abbiamo visto lo sguardo smarrito di chi suonava di fronte a un battere di mani che faceva fatica a scaldare. Perché, questo lo abbiamo capito, siamo abituati a sentire la musica dal corpo.
La musica parte e arriva al corpo, per nostra abitudine. E con il corpo ci raccontiamo nella musica.
Siamo abituati a pogare, abbracciarci, respirare il sudore della scompostezza. Siamo abituati a gridare e lasciar cadere sul palco tutta l’empatia che abbiamo ricevuto dagli artisti. Siamo corpi abituati a ballare, carne di pensiero e ossa, muscoli sudati e stretti.
Quest’estate abbiamo visto il coraggio di chi non ha fatto finta di niente e ha provato a non abituarsi all’assenza. Abbiamo visto i tentativi di costruire una nuova abitudine, fatta di regole, di rispetto e anche di speranza. Abbiamo visto ribadire con forza che a questa condizione non possiamo abituarci, ma dobbiamo creare nuove, temporanee abitudini. Abitarle in quest’altra estate (e anche in quest’altro autunno) come se fosse una casa da villeggiatura.
Intravedere che queste nuove forme di concerto potrebbero diventare un’abitudine ci ha lasciato tanto attoniti che non abbiamo saputo raccontarvelo. Non eravamo abituati.
E ci siamo fermati a respirare.
Respirare un Teatro Antico che si riempiva del coraggio di Antonio Diodato e della sua band che con i concerti di un’altra estate non hanno smesso di esserci e che domani chiuderà il 77° Festival del Cinema di Venezia. Lo abbiamo visto continuare il concerto nonostante il vento, poi diventato pioggia. Ché nell’incertezza bisogna aggrapparsi più forte alle cose belle. Uno dei teatri più belli del mondo che si tingeva di fucsia mentre Diodato e Rodrigo D’Erasmo salutavano uno spazio che non c’è più.
Ma che rimane voglia di anime e corpi, di sudore e di tinte magenta.
Voglia di musica, di spettacoli, di arte e di vita. Perché, no, a questa assenza pericolosa non ci siamo voluti abituare.