di Vicky Butera e Giuseppe Cucinotta
Il terzo quadro di Achille Lauro al Festival di Sanremo è una performance di forte impatto.
Una donna, sola, seduta sui gradini dell’Ariston. Il silenzio intorno a lei.
E’ Penelope. E’ lei, con le sembianze di Monica Guerritore ad accovacciarsi e dare voce alla sua attesa paziente.
Le colonne di un teatro senza tempo alle sue spalle, luoghi (comuni) fermi nello spazio che si ripropongono e distruggono le umane architetture.
Giudizi di marmo in un colonnato di pregiudizi portanti.
Quelle colonne reggono costrutti antichi come il mondo, ferme da millenni e intoccabili. Immobili e immodificate.
Monica Guerritore è il passato stanco, una Penelope esausta di vestire panni che le sono stati posati addosso e che lei ha indossato come se fossero adatti. Era lei a tessere la tela, ma dietro quel gesto ritmico e ciclico c’era ben altro. La pazienza e l’onestà erano virtù comode da cucire su una donna, moglie di un conquistatore astuto.
Così Penelope è diventata pop , “condannata ad una lettura disattenta, superficiale, banale”. Una donna ingabbiata nel pregiudizio, una donna incompresa e allo stesso tempo “un bastone con cui colpire altre donne che non avrebbero saputo essere oneste, pazienti come me”.
Arresa, si alza da quei gradini, ormai è troppo tardi . Lascia il teatro, da anima rassegnata, ma la sua testimonianza è troppo forte per rimanere inascoltata. Le sue parole scuotono i frammenti di argento di una statua Achille Lauro, la condannano a svegliarsi dalla sua immobilità colpevole, le fanno scavare tracce di umanità dove prima si era sedimentata la polvere dei secoli, come un pregiudizio diventato prigione. Ed è a quel punto che Lauro lascia i panni di una statua argentea per risvegliarsi umanità.
“Insegnami com’è” chiede l’uomo Lauro alla donna Penelope, condannata dal giudizio degli altri . Ed è in questa richiesta di scambio che entra in scena il presente, Emma Marrone, donna, ancora incatenata agli stessi pregiudizi , ma forse più cosciente, consapevole e forte. Uno davanti all’altra, paradiso e nemesi, riflesso di se stessi, specchio della propria solitudine, perché “tu sei come, che sei cresciuta come me, sola”.
Una statua in ginocchio ascolta allora la stessa storia di sempre, quella che esiste da molto prima di Penelope e che ha reso le donne proprio come il pop: “Presente, passato. Tutti, nessuno. Universale, censurato… Imprigionato in una storia scritta da qualcun altro”.
E sullo sfondo di una consapevolezza per la prima volta condivisa da uomo e donna, Lauro rimane inginocchiato forse lui stesso incompreso, proprio come tutte le donne che ha raccontato. In perenne attesa che qualcuno capisca, mentre il peso del mondo passa su altre spalle. Di donna.
In attesa che la storia non si ripeta più. E la tela si strappi. Per sempre.
“Insegnami com’è,
Insegnami com’è,
Insegnamelo”.
“Dio benedica gli incompresi”.