Un rumore che non si spegne mai. Un feedback prolungato all’infinito che si insinua nel nostro padiglione auricolare e si mischia con parole, suoni, silenzi. Un background noise che diventa quasi il supporto a tutto quello che ascoltiamo, ad ogni nostra percezione auditiva. Un rumore. Quel rumore che non può mai cessare anche se l’origine è ormai lontana, quel rumore che ci appartiene in maniera primordiale, quasi più di ogni altro ambiente sonoro. Sono pochissimi i rumori di questo tipo. Uno di loro era (è, continuerà ad esserlo) Steve Albini.
Steve è stato, più di ogni altro, il creatore di quei rumori che hanno cambiato le nostre percezioni, il nostro approccio con la realtà, il nostro modo di esistere nel mondo. E’ impossibile, e sarebbe presuntuoso, fare un excursus nella sua sterminata produzione, anche perché la sua essenza non è nella vastità del suo lavoro, ma nella sua curiosità e in un’attitudine radicalmente punk.
Steve non si trincerava dietro manopole e mixer, ma guardava oltre, ascoltava i rumori ed i frastuoni del mondo, anche ad oceani di distanza. Un’indole che lo ha portato a produrre anche dischi di due band nostrane come i 24 Grana e gli straordinari Uzeda.
E Steve era, soprattutto, un’anima sinceramente punk. Una visione senza compromessi che lo ha portato a rifiutare lavori importanti perché in conflitto con il proprio gusto estetico ed il proprio senso morale. Una trasparenza che si è tradotta anche in un rifiuto nel percepire le royalties dei dischi ai quali partecipava. Emblema, testamento e promemoria per il futuro del suo cuore punk è la lettera indirizzata ai Nirvana prima di diventare il produttore di “In Utero”.
“Adoro lasciare spazio alla casualità e al caos. Produrre un disco senza che si vedano le cuciture, dove ogni nota e sillaba è al proprio posto e ogni colpo di grancassa della batteria è identico, è veramente facile. Qualsiasi idiota con sufficiente pazienza e denaro può permettere che si compia un tale scempio. Preferisco lavorare a dischi in cui contano cose più importanti come l’originalità, la personalità e l’entusiasmo. […] Questione soldi: l’ho già spiegato a Kurt ma penso sia meglio specificarlo di nuovo. Non accetto e non accetterò che mi vengano ceduti dei diritti sui dischi che produco. Davvero. Punto. Penso che pagare i diritti a un produttore o a un ingegnere del suono sia eticamente indifendibile. La band scrive le canzoni. I fan della band comprano il disco. La band è interamente responsabile della buona o cattiva riuscita di un disco. I diritti appartengono alla band. Vorrei essere pagato come un idraulico: eseguo un lavoro e voi mi pagate una quantità di soldi adeguata al lavoro che ho fatto. La casa discografica si aspetterà che io chieda l’1 o l’1,5 per cento sulle vendite: su tre milioni di copie vendute fanno circa 400 mila dollari. Non c’è una cazzo di possibilità che io accetti quei soldi. Non ci dormirei la notte”.
E la casualità e il caos dei quali parla Steve in questa lettera sono probabilmente la ragione della magia della sua musica. Un caos sonoro, in alcuni casi primitivo, un rumore che come pochi riesce a trasformarsi in arte viva. Il rumore di un mondo che non si spegnerà mai, ma continuerà ad essere sottofondo della vita.